giovedì 26 giugno 2014

La lingua ibrida di Tahar Lamri

T. Lamri, I sessanta nomi dell’amore,
 Roma, Mangrovie, 2007
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I sessanta nomi dell’amore è una raccolta di racconti di Tahar Lamri, scrittore algerino naturalizzato italiano, a cui fa da cornice una storia d’amore costruita su una corrispondenza via e-mail fra Elena, una giovane italiana appassionata di cultura araba, e Tayeb, uno studioso algerino. Il meticciato linguistico e la scrittura ibrida che caratterizzano il libro non riguardano solo la lingua d’origine e l’italiano, ma anche il dialetto e l’italiano regionale. Le voci dei cantastorie del Nordafrica si mescolano con il dialetto veneto della pianura padana, la lingua araba con la lingua italiana, attraverso l’inserzione di parole, espressioni, suoni che si intrecciano e si contaminano fra di loro. Tayeb “traduce” la sua lingua e la sua cultura a Elena, raccontando di rituali e consuetudini arabe, attraverso proverbi e modi di dire:

Lo sai, c’è un’espressione ricorrente nelle poesie arabe – ma anche nella prosa e nel linguaggio comune – “zarani taifuha” ossia “il tuo soffio è venuto a trovarmi” (anche se la traduzione non è precisa perché “Taif” sta fra anima, spirito e soffio) che si usa quando si parla di amore o di amicizia intensa (p. 104).

Alla fine del libro Tayeb elenca e spiega a Elena le sessanta parole che in arabo indicano l’amore, e proprio in questo momento la loro relazione si chiude, quasi a mostrare l’impossibilità di una traduzione tra culture compiuta e priva di fraintendimenti:

عاطفة alaqa: legame amoroso, affetto (radice: esser sospesi attaccati). ارف araq: insonnia. بالبل balabil: tormenti. بين bayn: sete, uomo in stato di desertificazione esso stesso. شعف ch’af: sofferenze. شغف chaghaf: desiderio. شجو  chagian: malinconia […](p. 219)

Per Tahar Lamri scrivere in italiano rappresenta una ricerca di stabilità e di integrazione, un modo per “mettere radici” e trovare un equilibrio in quel “pellegrinaggio circolare” che è la scrittura, un modo per dare visibilità a tutti coloro che viaggiano fra le lingue e le culture. Staccarsi dalla lingua madre, saldamente ancorata alla terra, e avventurarsi in una lingua straniera, incerta ed esile come una radice di mangrovia, ma necessaria per convivere con l’altro, fa sì che la lingua italiana venga rivisitata, rinnovata, mescolata.
Così l’autore sostiene nell’Avant-propos del romanzo:

Per me, scrivere in Italia, paese dove ho scelto di vivere e con-vivere, vivere nella lingua italiana, convivere con essa e farla convivere con le altre mie lingue materne (il dialetto algerino, l’arabo ed in un certo senso il francese) significa forse creare in qualche modo l’illusione di avervi messo radici. Radici di mangrovia, in superficie, sempre sulla linea di confine, che separa l’acqua dolce della memoria, da quella salata del vivere quotidiano. Perciò la scrittura non rappresenta per me un mero nomadismo, in cerca di pascoli letterari, ma rappresenta un pellegrinaggio circolare, dove non è assente lo smarrimento, il saccheggio, la meraviglia, il mito, e, forse, il ritorno verso di sé, o in altri termini più precisi l’eterna perdita della mia propria identità, coltivando in segreto, come i marrani nella Spagna della Riconquista, l’identità primordiale, in un luogo al di là dell’errare. Forse si tratta di una ricerca dell’“anima plurima” con le sue implicazioni pagane. Scrivere in una lingua straniera è un atto pagano, perché se la lingua madre protegge, la lingua straniera dissacra e libera (pp. 7-8).


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