giovedì 17 giugno 2021

Etre hybride! L'écriture comme réparation à la souffrance, à l'arrachement de l'exilé, comme tenatative de ressembler les morceaux épars d'une identitè menacée par la disparition.


Etre hybride, l’Afrique et l’Europe se demandent, perplexes, quel bout de moi leur appartient. Je suis l’enfant présenté au sabre du roi Salomon pour le juste partage. Exilée en permanence, je passe mes nuits à souder les rails qui mènent à l’identité. L’écriture est la cire chaude que je coule entre les sillons creusés par les bâtisseurs de cloisons des deux bords. Je suis cette chéloïde qui pousse là où les hommes, en traçant leurs frontières, ont blessé la terre de Dieu.

 

Fatou Diome, Le ventre de l'Atlantique, Ed. Anne Carrière, 2003

 

Essere ibrido, l’Africa e l’Europa si chiedono con perplessità quale parte di me appartenga all’una o all’altra. Sono il bambino presentato alla spada di Salomone per un’equa spartizione. Esule permanente, passo le mie notti a saldare i binari che conducono all’identità. La scrittura è cera calda che faccio colare nei solchi scavati dai costruttori di compartimenti stagni dei due campi. Sono la cicatrice spuntata là dove gli uomini, tracciando le frontiere, hanno ferito la terra di Dio






venerdì 8 agosto 2014

E così Amira era felice… Sul matrimonio

Sempre nel romanzo Oggi forse non ammazzo nessuno la giovane protagonista Jasmine racconta con un certo disappunto come la sua amica Amira, anche lei musulmana, abbia lasciato l’Università per sposarsi e dedicarsi alla famiglia, cadendo lei stessa nel pregiudizio che una donna musulmana sposata debba necessariamente considerarsi una persona sottomessa alla volontà del marito.
E’ Amira stessa a sorprenderla rivendicando l’autonomia della sua scelta e, con immenso stupore di Jasmine, la sua felicità:

Contraddire mio marito o rispondergli in maniera sfacciata davanti agli altri sarebbe ingiusto. Perché non vuole che la percezione che gli altri hanno di lui sia quello di un uomo soggiogato dalla moglie o comunque incapace di farsi rispettare e di legare a sé la propria donna con l’affetto e la sensibilità. Ma poi quello che succede davvero quando la porta della nostra casa si chiude è un’altra cosa. (p. 183)

Amira racconta del suo diritto a contraddire suo marito quando litigano, delle sue decisioni e delle sue scelte: la destinazione della luna di miele, l’arredamento della casa, le uscite, e infine, l’università. Abbandonare gli studi per non trascurare la vita matrimoniale è per Jasmine una rinuncia a quei valori per cui combatte ogni giorno e che rivendica con foga: la carriera, la libertà, l’emancipazione. Ma Amira continua a stupirla:

Non so chi ti ha raccontato che l’emancipazione è strettamente subordinata al lavoro. A volta invece è la carriera che può rendere schiave. Jasmine, da quando ho trovato l’uomo che amo, l’unica cosa che voglio è farlo felice e avere dei figli con lui. […] Se passerò le mie giornate a preparare pranzetti a ad educare i miei figli, mi andrà bene lo stesso. (p. 184)

Jasmine constata sconvolta che Amira è felice, facendoci riflettere sul fatto che probabilmente la vera emancipazione è riuscire a liberarsi da ogni tipo di pregiudizio, anche quelli che riguardano la nostra stessa cultura.

E così non tutte le ragazze musulmane con la cittadinanza europea hanno come massima ambizione di spaccare il mondo e mostrare a tutti che vogliono fare un lavoro brillante, essere indipendenti e fare un sacco di soldi. E così una ragazza che sembra la perfetta moglie sottomessa magari dietro la porta di casa si trasforma in un'amazzone che gestisce da matriarca ogni singolo aspetto della vita di coppia. E così a volte io non capisco un cazzo. (p. 185)

sabato 5 luglio 2014

Sul velo...

                             
Randa Ghazy, Oggi forse
 non ammazzo nessuno
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Milano, Fabbri, 2007
Nel romanzo Oggi forse non ammazzo nessuno la scrittrice Randa Ghazy, nata a Milano da genitori egiziani, narra le vicende di Jasmine, una giovane studentessa milanese figlia di egiziani che tenta di trovare un equilibrio fra i diversi modelli culturali che le si propongono. Il tema dell’identità è terreno di contrapposizioni e di scontri: le crisi adolescenziali, le prime tensioni sentimentali fanno emergere in maniera evidente e dolorosa il divario fra la cultura d’origine – la religione, la questione del velo, i matrimoni combinati – e la cultura italiana, fatta di banali e disarmanti luoghi comuni sugli arabi.
Ecco cosa Jasmine pensa sul velo:

Una donna va in giro e dice "ehi, non mi importa di essere sensuale. Non mi importa di mostrare le mie belle gambe o di esporre il mio shampoopiùpiega appena fatto dalla parrucchiera, chissenefrega se non ho una bella scollatura che fa risaltare il mio splendido seno, e mica m’interessa che gli uomini si girino e mi facciano un complimento mentre passo per strada. Non me ne importa un fico secco. Il mio viso è davanti a voi, espongo tutta me stessa con la sincerità dei miei occhi, vi guardo dentro e voi, intimamente, guardate dentro di me. Non c’è minigonna che tenga".  Ecco come funziona. Allora, il velo è una delle esperienze più profondamente e sinceramente spirituali che conosca. Diventa un modo per azzerare le convenzioni. Un modo per elevarsi lì dove altrimenti non arriveresti mai. Lì dove contano la mente, il cuore, lo spirito. Un modo per costringere gli altri a guardarti dentro, perché fuori non c'è nulla da vedere, non hai nessun biglietto da visita da mostrare, non hai nessuna libidine da soddisfare. (pp. 23-24)

giovedì 26 giugno 2014

La lingua ibrida di Tahar Lamri

T. Lamri, I sessanta nomi dell’amore,
 Roma, Mangrovie, 2007
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I sessanta nomi dell’amore è una raccolta di racconti di Tahar Lamri, scrittore algerino naturalizzato italiano, a cui fa da cornice una storia d’amore costruita su una corrispondenza via e-mail fra Elena, una giovane italiana appassionata di cultura araba, e Tayeb, uno studioso algerino. Il meticciato linguistico e la scrittura ibrida che caratterizzano il libro non riguardano solo la lingua d’origine e l’italiano, ma anche il dialetto e l’italiano regionale. Le voci dei cantastorie del Nordafrica si mescolano con il dialetto veneto della pianura padana, la lingua araba con la lingua italiana, attraverso l’inserzione di parole, espressioni, suoni che si intrecciano e si contaminano fra di loro. Tayeb “traduce” la sua lingua e la sua cultura a Elena, raccontando di rituali e consuetudini arabe, attraverso proverbi e modi di dire:

Lo sai, c’è un’espressione ricorrente nelle poesie arabe – ma anche nella prosa e nel linguaggio comune – “zarani taifuha” ossia “il tuo soffio è venuto a trovarmi” (anche se la traduzione non è precisa perché “Taif” sta fra anima, spirito e soffio) che si usa quando si parla di amore o di amicizia intensa (p. 104).

Alla fine del libro Tayeb elenca e spiega a Elena le sessanta parole che in arabo indicano l’amore, e proprio in questo momento la loro relazione si chiude, quasi a mostrare l’impossibilità di una traduzione tra culture compiuta e priva di fraintendimenti:

عاطفة alaqa: legame amoroso, affetto (radice: esser sospesi attaccati). ارف araq: insonnia. بالبل balabil: tormenti. بين bayn: sete, uomo in stato di desertificazione esso stesso. شعف ch’af: sofferenze. شغف chaghaf: desiderio. شجو  chagian: malinconia […](p. 219)

Per Tahar Lamri scrivere in italiano rappresenta una ricerca di stabilità e di integrazione, un modo per “mettere radici” e trovare un equilibrio in quel “pellegrinaggio circolare” che è la scrittura, un modo per dare visibilità a tutti coloro che viaggiano fra le lingue e le culture. Staccarsi dalla lingua madre, saldamente ancorata alla terra, e avventurarsi in una lingua straniera, incerta ed esile come una radice di mangrovia, ma necessaria per convivere con l’altro, fa sì che la lingua italiana venga rivisitata, rinnovata, mescolata.
Così l’autore sostiene nell’Avant-propos del romanzo:

Per me, scrivere in Italia, paese dove ho scelto di vivere e con-vivere, vivere nella lingua italiana, convivere con essa e farla convivere con le altre mie lingue materne (il dialetto algerino, l’arabo ed in un certo senso il francese) significa forse creare in qualche modo l’illusione di avervi messo radici. Radici di mangrovia, in superficie, sempre sulla linea di confine, che separa l’acqua dolce della memoria, da quella salata del vivere quotidiano. Perciò la scrittura non rappresenta per me un mero nomadismo, in cerca di pascoli letterari, ma rappresenta un pellegrinaggio circolare, dove non è assente lo smarrimento, il saccheggio, la meraviglia, il mito, e, forse, il ritorno verso di sé, o in altri termini più precisi l’eterna perdita della mia propria identità, coltivando in segreto, come i marrani nella Spagna della Riconquista, l’identità primordiale, in un luogo al di là dell’errare. Forse si tratta di una ricerca dell’“anima plurima” con le sue implicazioni pagane. Scrivere in una lingua straniera è un atto pagano, perché se la lingua madre protegge, la lingua straniera dissacra e libera (pp. 7-8).


lunedì 16 giugno 2014

Il diritto alla pluralità

…la concezione che denuncio, quella che riduce l’identità a una sola appartenenza, radica gli uomini a un atteggiamento parziale, settario, intollerante, dominatore, talvolta suicida, e li trasforma assai spesso in assassini, o in sostenitori degli assassini.
Amin Maalouf, L’identità, Milano, Bompiani, 2005, p. 34. 

Questo blog nasce dall’idea che la nostra identità sta cambiando in seguito agli incontri interculturali prodotti dai fenomeni migratori, post-migratori e postcoloniali.
La letteratura, la filosofia, l’antropologia, la sociologia, la storia testimoniano come la profonda crisi che investe l’identità dei migranti non riguarda soltanto loro stessi ma anche la società cosiddetta “di accoglienza”, in cui si innestano le diversità culturali, linguistiche, religiose sia di coloro che giungono in un paese straniero per migliorare le proprie condizioni di vita, sia di coloro che vi sono nati e cresciuti e rivendicano i propri diritti di appartenenza.
La crisi di cui si fanno portatori i soggetti migranti (e post-migranti) produce uno scardinamento di valori che siamo soliti considerare come monolitici, fissi e omogenei, ma che la “turbolenza” delle migrazioni ha reso dinamici, ibridi e in continua trasformazione. Sono proprio i pilastri dell’identità – il luogo, la lingua, e la cultura – che, travolti dalle diversità e dalle contaminazioni, vengono messi in crisi declinandosi alla pluralità e all’ibridità.
Se in Italia stiamo lentamente prendendo coscienza di questi cambiamenti, in Francia queste trasformazioni sono già avvenute e possono rappresentare un esempio di come il multiculturalismo abbia, con non poche difficoltà, minato la compattezza linguistica e culturale di un paese storicamente assimilazionista.

Lo scrittore libanese francofono Amin Maalouf rivendica la pluralità insita nel concetto di identità. Partendo dal proprio vissuto personale, Maalouf sostiene che le sue molteplici appartenenze (arabo, libanese, cristiano, francese) non implicano il dissolvimento della sua identità, ma la consapevolezza del suo essere unica e nello stesso tempo comune a molti altri individui. Ogni individuo deve avere la libertà di poter assumere ciascuna delle proprie appartenenze, ciascuna delle componenti della sua identità, e rivendicare con orgoglio la propria molteplicità:

Ciò che mi rende come sono e non diverso è la mia esistenza fra due Paesi, fra due o tre lingue, fra parecchie tradizioni culturali. È proprio questo che definisce la mia identità. ...sono nato in Libano, ...vi ho vissuto fino all'età di ventisette anni, ...l'arabo è la mia lingua materna, ...ho scoperto prima nella traduzione araba Dumas, Dickens e I viaggi di Gulliver, ...nel mio paese di montagna, quello dei miei antenati, ho conosciuto le mie prime gioie di bimbo e sentito certe storie cui mi sarei ispirato in seguito per i miei romanzi. Come potrei scordarlo? Come potrei mai staccarmene? Ma, d'altra parte, vivo in Francia da ventidue anni, bevo la sua acqua e il suo vino, le mie mani accarezzano ogni giorno le sue vecchie pietre, scrivo i miei libri nella sua lingua, per me non sarà mai più una terra straniera. Metà francese, dunque, e metà libanese? Niente affatto. L'identità non si suddivide in compartimenti stagni, non si ripartisce né in metà, né in terzi. Non ho parecchie identità, ne ho una sola, fatta di tutti gli elementi che l'hanno plasmata, secondo un "dosaggio" particolare che non è mai lo stesso da una persona all'altra.

È necessario allora, così com'è stato fatto dalla critica postcoloniale, mettere in discussione i presupposti eurocentrici che sono alla base dei concetti cardine della teoria e della pratica filosofica, storica, letteraria e politica, rielaborare i concetti di “identità” e di “soggettività” alla luce di una configurazione del mondo attraversato da crepe, turbolenze e fratture, fondandoli su nuovi parametri quali la contaminazione, l’ibridizzazione, la deterritorializzazione.
Le migrazioni transnazionali portano a una riconfigurazione del tessuto urbano, a nuove dinamiche fra centro e periferie, e a una nuova identità europea svincolata dai confini geografici, geopolitici e geoculturali. È quanto sostiene lo studioso australiano Nikos Papastergiadis, per cui la “turbolenza” che caratterizza i movimenti migratori contemporanei ha destabilizzato le traiettorie dei movimenti e rimescolato la carta geografica del pianeta. Con la loro capacità di legare località distanti in un unico campo sociale, dando forma ad appartenenze multiple che attraversano più contesti nazionali o locali, i migranti hanno alterato le percezioni del tempo e dello spazio producendo cambiamenti nei paesaggi geopolitici, ridisegnando le mappe delle differenze culturali, e mettendo in evidenza la complementarietà dell’alterità periferica e il centro metropolitano. (N. Papastergiadis, The turbulence of migration. Globalization, deterritorialization and hybridity, Cambridge, Polity Press, 2000).

lunedì 9 giugno 2014

"La marche": le droit à l'appartenance



"La Marche" (2013), réalisé par Nabil Ben Yadir, retrace l'extraordinaire Marche pour l'égalité et contre le racisme, qui est partie avec 32 manifestants à Marseille le 15 octobre 1983 et s'est achevée avec un cortège réunissant plus de 100 000 personnes le 3 décembre à Paris.

La marche, puis appelée la "Marche des Beurs", a montré le visage des beurs (arabe en verlan), les enfants fils des immigrés du Maghreb, qui réclament leur droit d'appartenir au pays où ils sont nés et ont grandi, mais qui à l'époque était le théâtre d'incidents xénophobes et crimes racistes.
Contre l'image d'une France repliée sur soi-même et en réaction à la montée du Front national, les manifestants s’inspirent aux modèles pacifistes de Gandhi et Martin Luther King. L'effet sur les médias sera très fort: le président François Mitterrand recevra à l'Elysée une délégation de huit participants et garantira aux immigrés le permis de séjour de dix ans et des sanctions plus sévères contre les auteurs de crimes racistes.
L'esprit de la marche a eu une forte dimension identitaire, en suscitant chez la génération issue de l’immigration l’espoir d’une reconnaissance par la société française, désormais multiculturelle, en montrant ces identités hybrides qui vivent entre deux cultures et deux langues…

Juste quelques jours après le début de la Marche, un nouveau crime raciste se consomme: la nuit du 14 Novembre 1983 sur le train Bordeaux - Vintimille, trois jeunes Français 
défenestrent un touriste algérien de 26 ans, Habib Grimzi, sous les yeux des autres passagers qui assistent sans intervenir. L'incident a inspiré le roman Point kilométrique 190 de l'écrivain français, né en Algérie, Ahmed Kalouaz, qui raconte ce voyage tragique à travers le personnage de Sabine, une journaliste qui fait le même trajet que Habib, un an après sa mort.

Personne n’a bougé et, pourtant, j’entends l’autre témoin dire qu’ils étaient cinq dans un compartiment à regarder le manège des soudards. […] B. ouvre la porte donnant sur la voie. Le train roule à 140 km/heure, il fait nuit noire, H.G. résiste, essaie de se débattre mais en vain. Tout le monde pousse, il est 0 heure 15, H.G. percute le ballast et meurt, le corps fracassé. […] Quelque part, ils ont cru comprendre qu’un arabe ça peut se mutiler, se flétrir, s’assassiner avec sang-froid. (Ahmed Kalouaz, Point kilométrique 190, Paris, L’Harmattan, 1986, p. 40 e p. 45)